Premessa, è fin troppo facile dire di essere affascinati dall’opera di colui che Henri Cartier-Bresson definisce l’antesignano, affermando che “tutto quello che abbiamo fatto, Kertész l’ha fatto prima”. Eppure è proprio così.
La mostra dedicata al fotografo ungherese vista a Camera Centro italiano per la fotografia a Torino è stata illuminante. Ha toccato corde della mia anima forse un po’ irrigidite dall’inutilizzo e, facendole vibrare, ha mosso un sacco di polvere. La prevalenza di foto in bianco e nero, moltissime riprese dall’alto, vie di fuga che accompagnano lo sguardo, linee e prospettive dritte e tanta pulizia. Una visione nitida, lucida, neutra, ma in grado di raccontare ogni dettaglio, di dare visibilità al particolare, parte essenziale della scena.
Quasi un dipinto, in cui viene ritratta la realtà.
Trovarsi rapita di fronte alla “giornata di pioggia” pensando a come l’artista sia riuscito a immortalare una composizione così ben costruita, è stato una sferzata di entusiasmo, una scossa che ha riportato in vita la voglia di tornare a fotografare con maggiore impegno.
Le opere in mostra ripercorrono la vita del maestro: le prime esperienze con la ICA a lastre e gli anni della prima guerra mondiale, con le foto scattate ai commilitoni e poi gli scatti parigini, quelli americani e la sfida del colore. Uno sperimentatore; le sue distorsioni non lasciano indifferenti, ma anche un cronista che attraverso le immagini restituisce la realtà, l’immagine del violinista ambulante è un racconto potente, delicato e struggente. Alcuni scatti richiamano l’opera di Mondrian, con cui collabora negli anni Venti: le linee geometriche, della realtà che ritrae, guidano l’osservazione.
Eppure, nonostante l’indiscutibile talento e l’affermazione professionale riscossa in Europa, il trasferimento negli Stati Uniti a metà degli anni Trenta fu fonte di delusioni. La rivista Life rifiutò le sue fotografie perché “troppo significative” costringendolo a ripiegare sulle foto di moda e lo still life, ambiti in cui pur eccellendo, non si sentiva totalmente a suo agio. È pur vero che, malgrado l’America inizialmente non abbia saputo accoglierlo, a partire dagli anni sessanta gli ha tributato gli onori che la sua opera meritava, con mostre e riconoscimenti, ma è sorprendente pensare che anche un enorme talento come Kertész abbia dovuto affrontare l’amarezza di non essere compreso.
Un artista eccezionale, un testimone che dall’alto osserva il mondo, quasi che porre una distanza, aiuti a comprenderlo meglio. Una grande lezione di vita di cui voglio fare tesoro, allontanarsi per mettere meglio a fuoco.